Un viaggio diverso dagli altri: intervista a Andrea Magnani
In concorso per il Premio Amidei 2018, Easy – un viaggio facile facile, prima fatica cinematografica di Andrea Magnani, ripropone il tema del road movie, analizzato in molte delle sue sfaccettature nella storia del cinema. Nella declinazione proposta, il percorso di Easy – un depresso e svuotato ex-pilota, addormentato dagli psicofarmaci – si snoda attraverso gli spazi campagnoli dell’Ucraina, dove il protagonista deve recapitare la bara di un operaio ucraino morto in Italia. Distaccandosi vistosamente dal classico schema della commedia italiana, il lungometraggio di Magnani – girato tra il Friuli Venezia Giulia e l’Ucraina – si mantiene in equilibrio tra comico, tragico e surreale. Nel corso del Premio Amidei, abbiamo approfittato della presenza del regista e sceneggiatore per poter affrontare, assieme a lui, i tratti caratteristici del film.
In un’intervista hai dichiarato che dalla prima stesura della sceneggiatura alla realizzazione del film ci sono voluti sette anni. Ci racconti la genesi e l’evoluzione del progetto?
È vero, effettivamente sono sette anni dalla prima scrittura; ma la cosa interessante di questa sceneggiatura è stata la sua metamorfosi, se vogliamo chiamarla così. La prima stesura era ambientata nei Balcani, non in Ucraina: la storia attraversava gli Stati dell’ex-Jugoslavia, terminando nella Bosnia serba. Questa era la mia idea: anche perché allora vivevo a Trieste e mi sembrava naturale che la storia si sviluppasse verso sud, spostandosi nei Balcani. In seguito, ho dovuto far fronte alla difficoltà di reperire finanziamenti per girare lì. Sono quindi venuti in soccorso i miei coproduttori ucraini, conosciuti mentre sviluppavo la sceneggiatura in un workshop internazionale in Grecia: da subito si erano innamorati del progetto e quando ho ricevuto la loro chiamata – mi hanno corteggiato parecchio – sono andato per la prima volta in Ucraina (era il 2012). Sul momento non ci credevo troppo, in quanto l’Ucraina mi sembrava troppo lontana per l’idea del viaggio: poi andando su Google ho calcolato la distanza tra Trieste e Leopoli e ho scoperto che era identità a quella tra Trieste e Lecce. Sono andato lì e sono stato folgorato da un Paese che mi permetteva di avere quello che era stato scritto in sceneggiatura: un posto in cui il protagonista potesse perdersi, sentirsi smarrito per la lingua e l’alfabeto diversi. Mi aiutava a sviluppare maggiormente il tema dell’incomunicabilità. Ad aumentare questo senso di smarrimento, un paesaggio infinito, fatto di pianure e fabbriche mastodontiche abbandonate. Qui ho cambiato per la prima volta la sceneggiatura, da un setting geografico che prevedeva l’attraversamento di più confini a una situazione in cui il confine era solo uno, quello di Schengen tra l’Ungheria e l’Ucraina. Eravamo pronti a girare nell’estate del 2014, poi i disordini e la guerra nel Donbass hanno portato al congelamento dei finanziamenti dal governo ucraino: siamo rimasti fermi due anni, convinti che il film non si sarebbe mai fatto. Poi improvvisamente il coproduttore mi ha chiamato a fine 2015, per firmare il contratto. Tuttavia, in Ucraina c’è una clausola, che prevede che tu abbia 6 mesi per girare dopo la firma del contratto: quindi avrei girato in pieno inverno e non in estate, come originariamente previsto. Da qui, la terza revisione sulla sceneggiatura. Con l’adattamento invernale il protagonista ha preso più forza, perché il suo percorso diveniva ulteriormente più difficile. Anche le scelte sulla fotografia sono cambiate: se all’inizio avevo in mente dei colori pastello, il tutto si trasformava nella migliore delle ipotesi in un bianco o grigio. In realtà, è stato l’inverno meno freddo negli ultimi 50 anni in Ucraina… Comunque abbiamo lavorato giorno dopo giorno sul tipo di colore e secondo me la fotografia ne ha beneficiato: sono molto soddisfatto del lavoro fatto con Dmitriy Nedria (il direttore della fotografia).
La predominanza dell’ambientazione extra-urbana era un tratto presente anche nella sceneggiatura ambientata nei Balcani?
Certamente: questo non è mai stato un film urbano. Del resto, se ti perdi in una grande città, è più facile trovare il bandolo della matassa: basta andare in un Internet point e puoi comunicare con il mondo. Invece, il mio viaggio rappresentava il percorso nell’anima di un protagonista depresso, senza risposte, senza una vita: quindi l’ambientazione rurale era ideale per raccontare il percorso
emotivo dell’anima di Easy.
Vorrei soffermarmi sulle ispirazioni cinematografiche di questo film. E’ un prodotto non incasellabile in un unico genere: ai tratti tipici della commedia, si mescolano echi del western. Che titoli ti hanno particolarmente influenzato?
Io quando parlo di western non mi riferisco a titoli precisi: è il genere in sé che mi ha formato. Tendo a pensare che ogni cosa che viviamo nella vita ci rimanga addosso, anche involontariamente. Mi sono trovato quasi per caso a trasporre la mia visione di western nelle inquadrature; poi va detto che la maggior parte dei western movies sono anche road movies, un genere che mi affascina molto. Non dimenticherei neanche i riferimenti al cinema scandinavo. Sai, noi in Italia siamo abituati alle commedie ricche di dialoghi, mentre io preferisco la commedia da situazione, dove il dialogo è solo uno dei tanti strumenti. Sono convinto che un’immagine possa viaggiare di più e rimanere più impressa che una battuta. In questo senso, avevo in mente un film che mi aveva colpito, Il responsabile delle risorse umane che ha una struttura e un tema molto simile; inoltre, mi aveva interessato Nord, di Langlo, alla Berlinale.
La bassa intensità di dialoghi era una scelta decisa fin dall’inizio o hai lavorato per sottrazione?
Avevo quell’idea fin dall’inizio. In questo caso, c’entra anche il mio passato da sceneggiatore televisivo. La tv generalista, quando produce serialità, tende a usare tantissimo il dialogo: per me era un po’ frustrante e probabilmente anche per reazione ho lavorato cercando di togliere e raccontare con meno dialoghi le emozioni che volevo riportare. Pensa alla scena in cui Barbara Bouchet regala due maglioni ai figli e ad Easy tocca quello col numero 2. Lì, senza dialoghi, con una semplice immagine, raccontavo una gerarchia che si era stabilita nella famiglia. Comunque sia, sul set abbiamo tagliato ulteriori dialoghi al protagonista. In un primo momento, Nicola si è arrabbiato, poi ha capito benissimo: una cosa che mi piace molto di lui è come si ponga prima come spettatore che come attore.
La scelta di Nicola Nocella nei panni del protagonista è avvenuta all’inizio della stesura della sceneggiatura?
In realtà, è avvenuta dopo: quando ho scritto la sceneggiatura non avevo in mente l’attore, ma il suo fisico, che doveva essere sovrappeso, goffo, depresso e addormentato dalle pillole. Poi ho visto Il figlio più piccolo di Pupi Avati, e mi è piaciuto molto quel suo candore negli occhi: ho cercato su Google la sua e-mail e l’ho semplicemente contattato.
A seguito dell’interruzione per i disordini in Ucraina, ti è venuta la tentazione di inserire anche quel tema nel film?
Ovviamente ci ho pensato. Per un momento, ho anche cercato di capire se fosse possibile, mentre i coproduttori, in maniera molto timida, mi facevano capire che da parte loro avrebbero inserito volentieri qualche rimando. Alla fine, ho deciso che non volevo fare di questo film un prodotto collocabile in una data precisa con determinate dinamiche: essendo in un percorso dell’anima, l’inserimento di momenti di attualità poteva portare un po’ fuori strada. Magari avremmo avuto più fortuna nell’ambito dei festival, ma probabilmente sarebbe invecchiato meno bene.
Ci sono state delle criticità nel momento in cui, ultimate le scene in Ucraina, ti sei spostato in Italia?
Avendo girato in Italia (più precisamente, a Trieste, Gorizia, Grado e Lignano) alla fine, eravamo rodati ma anche abbastanza stanchi. Sono cambiate diverse cose: in Ucraina c’era una troupe che lavorava 12 ore, mentre in Italia si lavora un’ora in meno. Inoltre, ho cambiato totalmente la troupe, con l’eccezione del direttore della fotografia. Io non ho trovato grosse differenze tra il lavoro in Ucraina e quello in Italia: sicuramente ero molto più stanco durante le ultime scene, ma non credo che questo si intraveda nel film. Abbiamo girato in Italia verso metà aprile: quello che mi interessava era poter avere qualche elemento di sole e per fortuna abbiamo avuto giorni con un cielo libero.
Il film affronta, seppur marginalmente, il tema dell’emigrazione per lavoro e delle morti bianche: ti interessava sottolineare questo aspetto di denuncia oppure era semplicemente un escamotage narrativo?
Mi piaceva raccontare come ci siano persone attorno a noi – che facciamo finta di non vedere – le quali magari ci migliorano la vita, mentre non abbiamo neanche il coraggio di capire da dove vengono e cosa provino. Il viaggio che fa Taras verso casa è un modo per ridare dignità a quelle persone che vivono la loro vita attorno a noi, senza essere minimamente riconosciuti. I villaggi in cui abbiamo girato, tra l’altro, sono proprio quelli da cui molti ucraini partono per venire da noi a lavorare. Portare là le scene è stato un modo per far capire a chi sta da questa parte del confine chi siano queste persone e da dove vengano, per annullare quelle differenze che qualcuno pensa ci siano.
Yannick Aiani