Premio Sergio Amidei

Il piacere di seguire l’arte: intervista a Marcello Fonte

Di Marcello Fonte si è già scritto abbondantemente, a partire dalla serata che l’ha visto ricevere il Prix d’interpretation masculine al Festival di Cannes. Ad interessare cronisti e pubblico, non è solo l’interpretazione nel film di Matteo Garrone, ma anche la sua parabola di vita, che sembra ricalcare certe trame dickensiane, pregne di povertà e riscatto sociale. Dall’infanzia nelle baracche di Reggio Calabria all’incontro con la settima arte, avvenuto a Roma; dalle prime esperienze come comparsa – appare in Concorrenza sleale di Scola così come in Gangs of New York – fino al trionfo sulla Croisette. Presente alla proiezione di Dogman, nella prima serata del Premio Amidei 2018, ha accettato di rispondere ad alcune domande, con una leggerezza e sincerità quasi straniante, per un uomo entrato a quarant’anni nel microcosmo dei grandi attori.

Andrea Tomasin-0471Sei nato a Reggio Calabria e successivamente ti sei trasferito a Roma. Ci racconti quali sono state le tue prime esperienze nella capitale?
Mi sono trasferito da Reggio Calabria perché mio fratello stava lavorando lì e mi ha chiesto di venire, in quanto gli serviva un musicista: sarei dovuto stare tre giorni, invece sono diventati 20 anni. Ho scoperto col tempo il mestiere dell’attore: prima ho scoperto l’arte, ho scoperto la bellezza. A Roma ho anche cambiato religione, diventando buddhista. Insomma, mi sono messo in gioco in tutte le cose, come ho sempre fatto nella vita: direi di essere una persona che cambia idea sempre. Io seguo la vita, l’arte e quello che mi offre: mi piace stare dove c’è l’arte. Questo non riguarda solo il cinema, ma accade anche nei lavori più umili.

Mi par di capire che tu abbia cambiato molti lavori, prima di approdare al cinema…
Sì, ma non li ho persi: sono ancora dentro di me e quando mi servono, li tiro fuori. Ad esempio, se mi viene voglia di costruire un bagno, me lo faccio da solo, proprio come piace a me: ho imparato a mettere le mattonelle, i tubi, so come attaccare l’impianto idraulico. Farlo con le mie mani mi dà più gioia: sicuramente non faccio una casa IKEA, che appiattisce le personalità. Insomma, a me piacciono i mestieri e ne ho imparati molti. Il cinema è uno di questi: quando sai farlo, basta dire quattro parole e si scatena il putiferio. A saperlo prima, mannaggia a me, mi sarei fatto gli affari miei!

Sei passato dall’anonimato a questo momento di grande esposizione. Come lo stai vivendo?
Guarda, io ho sempre avuto lo stesso rapporto con le persone: ho sempre lasciato che mi conoscessero per come sono. Da parte mia, sono tranquillo: più che altro, sono le altre persone che si esaltano. Sai, il sindaco che viene a farsi la foto con te e magari neppure rimane a vedersi la proiezione del film… È come se ognuno volesse un pezzo di te ed una volta ottenuto, se ne va. Anche se magari gli dai la possibilità di conoscerti come persona, ti accorgi che è solo una questione di averti in una foto, quasi prendendoti l’anima, come dicono gli indiani. È una situazione strana, che però sto studiando. Qualche volta poi si innesca questo meccanismo: basta che una persona mi riconosca e tiri fuori il cellulare, che tutta la massa lo segue.

Immagino che tu non abbia paura della fine di questa fase…
Io non cerco il successo o la gloria: voglio lavorare e basta, fare quello per cui credo. Magari cambierò lavoro domani, magari mi appassionerò a costruire una casa, visto che ancora non ce l’ho. In fondo, ogni cosa è bella nella vita: sei tu a doverne trovare la bellezza, ovunque ti trovi, a partire dal qui ed ora.

A Roma, hai frequentato molti spazi occupati, come l’Angelo Mai, il Nuovo cinema Palazzo, il Teatro Valle.
Sai che mi hanno aperto le porte del teatro Valle qualche giorno fa? Per farmici entrare, in modo da fare delle foto di me lì dentro: poi mi ha chiamato la ditta incaricata dei lavori, visto che non sapevano neppure dove si aprivano e chiudevano i rubinetti. Sì, io sono stato un occupante: ho dormito lì tre anni e mezzo. La mia stanza? Erano i cessi in disuso: la camera più bella del Valle.

Non avevi paura di essere sgomberato?
Ma che paura e paura… magari ti sgomberano e tu occupi un altro posto. In fondo, che c’hai da perdere? Nulla avevi prima di nascere e nulla ti porti dietro. L’importante è che il tuo cervello rimanga sano, che tu possa combattere e lottare per quello in cui credi, contro le ingiustizie che vedi. Basta capire dove si sbaglia e dove si può recuperare: utilizzare i propri errori per non farli fare agli altri.

Parliamo di Asino vola, film autobiografico che hai realizzato tre anni fa. Non è stato ancora distribuito, però.
A dire il vero, verrà distribuito a settembre o ottobre, da 01 Distribution.

Da dove nasce questa voglia di raccontarsi?
È da una vita che volevo raccontare la storia della mia vita. Raccoglievo vestiti, oggetti tutto quello che poteva aiutarmi a raccontarmi. Non potevo farcela da solo, era un peso troppo forte; poi ho incontrato due ragazzi a San Lorenzo: Giuliano Miniati e Paolo Tricodi del Centro. Da quest’amicizia è nata la storia di Asino vola, scritta a sei mani. È la storia di un bambino che ha il sogno di suonare nella banda del paese, ma non se lo può permettere, perché lo strumento costa troppo e per la famiglia la musica è un lusso. Già è tanto se riescono a comprare i chiodi per le baracche, figurati uno strumento! Ecco: quel bambino ero io. Diciamo che mi piace molto raccontarmi: tra l’altro, a novembre uscirà Sotto le stelle, per Einaudi, in cui racconto la mia vita tramite la scrittura. La passione per l’autobiografia è nata quando mi sono trasferito a Roma: mio fratello mi disse che, per trovare lavoro, a Roma si usavano i curriculum. E io: “Che è sto curriculum?” M’ha spiegato: “È un foglio in cui si scrivono i lavori che per te sono stati importanti”. E allora ho iniziato a scrivere e ho capito che mi piaceva raccontarmi.

Yannick Aiani